Anna osservava, dall’altra stanza, quello che in un primo momento poteva sembrare un gioco tra bambine, ma che purtroppo non lo era. La camera patronale al primo piano era in semibuio e le dita lunghe di donna, accarezzavano i bei capelli di una bimba di cinque anni, dai grandi occhi verdi. “Chi è questa bella bambina?” Riflessa nello specchio ovale di una pettiniera antica, con una liseuse rosa sulle spalle e il volto pallido un po’ stranito, Lory guardava l’altro piccolo viso riflesso accanto al proprio, parlandole come ad un ritratto. “Questi riccioli meravigliosi, non dovrai tagliarli mai, sarebbe un peccato.”
Le sembrava di vedere la figlia in quella bambina, la sua piccina di pochi mesi, che ora era lontana. Qualcuno (e lei sapeva chi…) l’aveva portata via, e con il cuore sommerso nell’angoscia infinita non sapeva proprio dove cercarla. Una sensazione di dolore struggente attraversava e rapiva la donna, istanti di panico le corrugavano la fronte, fino a quando, ricordandosi della piccola presenza, con voce soffocata nel petto e sguardo perso, riprendeva a pettinare la piccina, creando con amore una pettinatura principesca. La piccola, simile ad un cucciolo di foca smarrito nel cuore dell’immenso deserto nordico, mostrava due gemme di lacrima, tra le ciglia degli occhi ignari, che guardavano la donna chiedendole: “mammina, io, sono io, … mammina”. Le parole si perdevano in un abbraccio e Anna, che seguiva tutto senza fiatare, si sentiva sollevata. Capitava che la reazione della giovane madre fosse di allontanare da sé la piccola, forse per non dover soffrire di un abbandono ulteriore. “Vai dalla tua mamma, sarà preoccupata”. “Mamma, perché fai così?”, era la domanda della figlia e la sua voce ed un abbraccio, allora, come preghiera, scioglievano in fretta quel maleficio, come il calore che pervade la terra, facendola ruotare.
Lo strano incantesimo che generava tanto dolore era nella testa di Lory e la costringeva all’oblio degli affetti più cari; ma l’amore di un figlio e per un figlio è una panacea efficace più di ogni altro medicinale, di qualsiasi terapia o endorfina.
Un sorriso, un abbraccio, una carezza, ogni possibile tenerezza, bastavano perché tutto tornasse ad essere “normale”. Lory ritrovava la figlia e la bimba riabbracciava la madre. Anche se piccina, temeva che quella “strana” potesse tornare, perciò l’abbracciava più forte, come per fissare i ricordi, imprimendoli nell’unicità di quel rapporto, nella pelle e nella mente di una mamma che sfuggiva a qualcosa.
Trasmettendole tutto l’amore del suo piccolo essere, per ribadirle: “Io sono la tua bambina, non puoi non riconoscermi…”. La madre, avvertendo lo smarrimento e la preghiera in quell’abbraccio, si ripeteva: “Non posso più farti soffrire così…”, e piangeva in silenzio per non turbare la piccola mentre nel volto sorrideva, come sanno fare solo le mamme.
Tornava il sereno, in un lungo istante bellissimo che asciugava tutto, tutto il dolore. Nella mente c’era un universo parallelo, dove si costruiva un brutto gioco. Nella mente c’era un universo strano, inspiegabile, che era causa di dolore. Parte di quel dolore abitava lì, nella casa colonica, tra abeti ed eucalipti … era vivo tormento, nell’esistenza di una donna che col dolore conviveva, cercando disperatamente di convertirlo in amore per la sua creatura.
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