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Storie di Donne 2

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Il percorso di uno sguardo

La fatica e tutti gli sforzi mentali e fisici per il raggiungimento dell’obiettivo “laurea in medicina” si erano dissolti di fronte alla donnina albanese che mi abbracciava, annientando la stanchezza del viaggio e col calore di braccia materne ridonava il conforto famigliare, col sorriso di una bocca sincera, che tra le pieghe numerose del viso nascondeva il dolore suo e quello altrui, dispensando bontà e sacralità umane.

L’ultimo finestrino polveroso del pullman s’allontanava, e come uno specchio del passato, portava con sé la vecchia immagine di me che non sarebbe mai più stata la stessa. Un viaggio insidioso ed impervio m’aveva condotta in un villaggio sperduto della savana Africana dal nome criptico ed impronunciabile.

In quell’istante sentii la pienezza per una felicità totale, per un senso di soddisfazione che riempiva le attese e le ansie vissute in anni, tra l’entusiasmo ed il timore di non farcela. Mi sentii così illuminata da una luce interiore completamente riversa al prossimo, e sospinta da un altruismo totale, che perseguendo il bene altrui riceve un immediato e moltiplicato benessere di rimando.

Nella stanchezza di un flash, mi rivedo bambina, in una classe numerosa con tanti altri compagni che assistono sul muro bianco ad un filmato fuori dai canoni puerili, fuori dai cartoni dell’orso Yoghi o dalle favole della D. Un filmato fin troppo crudo dei coetanei color cioccolata, dal corpo sofferente ed offeso, come tanti piccoli cristi sulla croce, e come quel Gesù che predicò l’amore e la fratellanza, unica via perseguibile per una vita che abbia un senso autentico.

Scoprii un mondo diseguale dove erano evidenti i limiti per le molteplici differenze delle condizioni umane. Mi fu chiara da quel giorno come fossimo fortunati a vivere nel benessere del quale iniziai a vedere gli eccessi. Incominciai a provare vergogna per il malcontento e fin anche disprezzo mio e dei miei fratelli d’avanti al piatto mal riuscito di mamma. Mi vergognai per Marta e la sua famiglia in sovrappeso, che spendeva una cifra al giorno in pasticceria o dal salumiere ed un’altra al mese per palestre e dietista.

Ebbi pena per il volto sempre adirato di Alfredo,  il mio dirimpettaio impiegato in banca, come la sua consorte, che assecondavano alla lettera i figlioli viziati da moto e vestiario griffato, mai contenti e grati, che denigravano di continuo il mondo intero di urla dissennate e volgari, sbattute in faccia al vicinato.

Ebbi vergogna per la chiesa di paese con le sue elemosine inutili sprecate nelle feste in piazza, volte ad omaggiare la statua inerme ed incolpevole, d’un ignaro santo patrono, che non aveva voce per dire quanto gli tornassero vane quelle luminarie costose e quei fuochi vacui sperperati in suo onore.

Ogni cosa mutava e si sincerava in quel villaggio, abitato da una popolazione primordiale, carente in ogni necessità, completamente sovrastata dall’indigenza per malattie terrificanti, che la costringevano ad una sorte di povertà infinita e mortalità. Imparai a conoscerne l’indole e non vi era in loro disperazione, erano coesi nella fraterna sorte che li attanagliava, sorridevano nei corpi mutilati, resti di uomini miti, dal destino assurdo.

Sorridevano come bimbi a chi planava in quel posto quasi surreale, per mettersi a disposizione della loro condizione, tentando di migliorarla.  Era questa l’estrema “ratio” che dal giorno del filmato sul muro, aveva governato la mia esistenza, e da quel giorno alla richiesta d’aiuto avevo risposto : fiat …

La manina tesa,  alzata per segnalare la mia disponibilità d’aiuto, al divenire di medico si era candidata a fare della medicina una missione senza reti di protezione, né confini. Il vero fu che, da quel giorno, non ero più riuscita ad accettare che un Dio buono ed equo, come sempre mi era stato descritto, avesse riservato un posto del mondo a letamaio destinato a suoi figli, che nulla avevano fatto di male, più o meno come il resto degli altri ominidi. Pensavo che, quanti di loro perivano dopo immani e sofferte vicende, avevano di certo un posto in quel Paradiso che pretendevo, non  per quelli fortunati come me, ma per tutti gli infelici di ogni nazionalità.

Intanto io continuavo a sentirmi uno strumento, fatto per aiutare a migliorare la vita altrui, lungo una strada colma di difficoltà che avrei dovuto affrontare, come per esempio il convincimento verso i miei genitori a mandarmi a scuola, nonostante la malattia debilitante di mia madre e la non florida condizione economica. Inoltre, non era certo che la mia testolina avrebbe retto a studi impegnativi e di grande precisione e responsabilità. Ma ci dovevo provare e così fu che, con coraggio ed ostinata volontà, ero giunta di fronte alla donnina col piccolo velo sul capo e al suo sorriso complice, come se ci conoscessimo da sempre.

Mi rivolse poche parole nel condurmi alla mia stanza, una canadese contrassegnata da una croce rossa in punta indice di pietas in quell’aggruppamento di rifugio e soccorso. Entrai, quasi come Alice nella minuscola tana e non v’era tempo per il ristoro. Posati sul sacco a pelo, che era il mio arredo, gli essenziali affetti personali, da un lembo del portafogli di tela aprivo la foto dei miei genitori, dall’eterna espressione di chi mi guarda senza capire, ed accetta per amore la scelta di una “folle”, pregando e sperando in un improbabile ravvedimento estremo.

Quello che mi sentii di spiegare  fu che i loro sacrifici avrebbero aiutato persone oneste, che come loro avevano figli e non si potevano abbandonare ad un destino di malattia e di morte, e che verso questi, la mia coscienza bambina aveva contratto un debito morale, molto più grande dei miei giovani anni, ma a cui non potevo rinunciare.

L’altra piccola foto la sbirciai con simpatia, era il sorriso occhialuto di Marco, come quello della nota canzone “grosse scarpe e poca carne”, mio compagno di studi, iscritto a biologia e con la passione febbrile per calcio e politica, il quale aveva condiviso per qualche tempo i miei ideali, poi stanco dei progetti a suo dire utopistici e a lunga scadenza, aveva optato per una scelta di divertimento a basso costo ed alto rendimento, dagli effetti gradevoli ed immediati. Di sicuro non lo biasimavo, ciascuno ha il proprio destino ed il nostro era disgiunto irreversibilmente.

Richiudevo il portafogli carico d’affetti e completamente privo di denari, una parola che qui era completamente e finalmente inutile, depositando il tutto in un sacchetto di nylon, e con sollievo mi congedavo liberandomi dal passato.

IMG_20150626_223015Mi protendevo verso occhi incontrati nel viaggio, sempre uguali eppure differenti, in quell’umanità sofferente di cui sentivo il richiamo dal fondo dell’inferno, nel dolore di un tempo interminabile, dove era tangibile l’amore filiale che diventava disperata poesia in un quadro di povertà da presepe, all’interno di baracche malmesse. Erano visibili braccia scarne di madri che abbracciavano nidiate di cuccioli d’uomo dai grandi occhi dolci ed affamati. Ragazzi adolescenti smagriti trasportavano recipienti di creta grandi come la fame che li mordeva, impegnati alla ricerca di riserve d’acqua, assorti in pensieri di semplice sopravvivenza, senza progetti per un futuro improbabile, un passo alla volta sui piedi riarsi dal sole, che consumava la poca pelle ed il vigore degli anni migliori.

Giovani padri precocemente invecchiati, fermi allo stremo delle forze, accanto a buoi scarni che si accompagnavano stancamente per campi solcati dalla carestia, terreni e solchi avidi di messi e raccolto. Eppure tutto questo eccesso di carenze mancava di rabbia, il senso di disperazione e malcontento era completamente addomesticato dal dolore, ed era divenuto rassegnazione alla volontà di un Padre sconosciuto, come il Fiat di Cristo ai piedi della Croce. Strideva il contrasto col mondo del benessere, sopraffatto da ansia e nevrosi.

Tutto quel soffrire, privo di rabbia convulsa, fu la prima constatazione che mi infuse coraggio, convincendomi che l’Africa sarebbe stata un’efficace risposta alle molteplici domande esistenziali, e che quel granellino di senape che era il mio apporto, era già tornato indietro centuplicato.

La piccola donna mi aspettava fuori dalla tenda, concedendomi il tempo di raccogliere i disparati pensieri e quando le fui di fronte ebbi la certezza che li conoscesse, poichè erano di certo anche i suoi.
Arrivammo alla roulotte che lei chiamava “hospital”, dove mi mostrò qualche medicinale generico e anestetici, con qualche essenziale attrezzo medicale. Mi parvero assolutamente inadeguati alla gran mole di malattie da curare, ma pensando alla moltiplicazione dei pani e dei pesci, sentii di aver fede … anche in lei, che invece sembrava sicura malgrado i pochi mezzi.

Il lavoro era tanto, la fila interminabile per le vaccinazioni contro le malattie già addomesticate, mentre per quelle incurabili era efficace solo il conforto insostituibile della suorina e di tutte le altre generose persone, donne e uomini che l’affiancavano, da ogni parte del mondo, spinte da un credo comune o da un laico desiderio di fratellanza, nel senso più alto del termine.

Lavorai incessantemente e la mia scarsa esperienza fu sopperita dalla necessità di agire al meglio e portare una goccia esigua di aiuto, sicuramente più utile dell’egoismo che aliena gli uomini. In breve tempo diventavo pur io color cioccolata, sparito il pallore iniziale, di spicco nei primi tempi tra i musetti sorridenti, che m’incoraggiavano, dandomi fiducia. Si rinnovava la mia fede, annebbiata da mille domande sull’infelicità, il dolore e l’inutilità del vivere per poi morire.

Ritrovavo Dio in ogni nuova Alba, unica, di colori accesi e tenui di straordinaria bellezza, in un paesaggio impossibile da captare da un appartamento cittadino. Lo ritrovavo soprattutto nella gratitudine e nell’immenso amore profuso che conforta la vita di chi soffre, riservata a quanti in ogni parte della terra incontrano la malattia in ogni suo aspetto, e pregano e sperano in una guarigione, trovando il conforto di altri uomini che a questo fine dedicano se stessi.

Una fede consolidata tra le più estenuanti fatiche fisiche e la sofferta condizione di corpi pullulanti d’insetti malsani che coprono perfino gli occhi, persi nella totale cecità, ma che tendevano le braccia e le mani al tocco d’ogni stretta di mano, avvertita dai corpi vicini e solidali.
Braccia senza mani attendevano carezze, e gambe monche seguivano la via dei viandanti del bene, con il segno della gratitudine nel volto, guidandoli con una rudimentale preghiera comune verso i percorsi più ardui.

Quei percorsi che m’avevano scelta, bambina d’una scuola elementare lontana dove un’altra donnina generosa, Suor Vita, aveva saputo coltivare nei piccoli allievi il raro fiore dell’altruismo, facendoci sentire il dolore del prossimo, come nostro. Una piccola telecamerina a muro aveva dato volto alla sofferenza e mostrato l’inutilità del consumismo. Aveva fatto emergere grandi ideali ed aspirazioni, nei nostri animi puerili, ma spontanei ed incontaminati, dall’egoismo.
Un iter lunghissimo mi divideva dal traguardo per esser parte del filmato, ed il traguardo stesso era solo il punto di partenza. Molteplici situazioni avverse mi rimandavano allo scoramento e tante volte avevo creduto di non concretizzare il progetto.

In una di quelle pause di sconcerto risentivo il ciabattio di mamma, che a notte fonda o di prima mattina sfaccendava per renderci il conforto di una casa in ordine, accompagnata da uno sguardo di malinconia, perso tra lo spolvero ed un fardello quotidiano dei fiori dell’ingratitudine, che io ed i miei fratelli (le sue adorate creature) dispensavamo senza cattiveria, assieme agli immancabili quanto petulanti improperi di nostro padre.

Tutto il malcontento espresso ed il bene trattenuto avevano contribuito a cambiarla, in modo lento ed inesorabile, trasformandola in una donna diversa dalla ragazza estroversa ed entusiasta che era stata. Lo coglievo nelle sue confidenze. A me che ero la sua donnina di casa aveva confidato quanto la ferisse l’aria di sufficienza che la faceva sentire come una domestica in una famiglia di despoti. Quella famiglia che aveva creato per amore e a cui perdonava tutto ed era certo che anche noi le volessimo bene e l’amavamo, anche se non era facile da evincere dalle apparenze.

Di certo non sarebbe stata come la sua, la mia vita.
I figli che desideravo erano già nati, figli di altre madri, di altri continenti, figli di ogni età, perfino anziani o in fasce. Malmessi e sventurati figli di dei o dello stesso Dio.
Figli che sentivo miei e che mi avevano chiamata fin da bambina ad esser per loro una madre.

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