Nessuno sa di me … mi credono al mare … e le sento, le onde e i voli.
Troppo freddo e le mie mani intorpidite, come dopo aver sbrinato la cella frigo, dove rigagnoli di fumo freddo, che prima erano stalattiti scorrono giù per i polpastrelli violacei, velocemente scivolano, sono acqua azzurrognola … potrei anche berla, se le tempie non mi scoppiassero dal mal di testa che da troppi mesi mi tambura dandomi il tormento.
Riuscirò comunque a terminare questa missiva. Non so misurare quanto mi sia vitale trasmetterti tutto, tutto il mio desiderio di vederti e abbracciarti, finché ciò non accadrà, qui apporrò il mio maggior sollievo: … penna e foglio, che tutte le sere, mi faccio portare da Sitra. IL malinconico gitano, transita sotto la mia finestra, con una rosa ed il suo cappello capovolto per le monetine.
Ho l’abitudine di ripercorrere con la mente questi lunghissimi anni che mi dividono da te, a puntate, come in un tele-racconto e vi ripeto a memoria la tua faccia, per non dimenticarne la geometria …
A volte ti vedo nei sogni freschi di prima mattina, quando fisso la bacinella piena d’ acqua trasparente che la saponetta profuma di mughetto. Sei lì dentro, sorridente nel tuo mondo di fata del Lago …
O nascosta in un cuscinetto d’aghi, come piccolo gomitolo di filo d’oro, raccolto ai piedi del grande cesto da ricamo dell’atelier, nell’armadio perverso, dove tento di contenere chiuse con mille giri di chiave le mie paure ed incognite,nell’intento di tenerle lontanissime da te.
Vestiti sciccosi e lussureggianti, scarpe dai tacchi inopportuni, scollature bohemien merlettate di raso e ciglia finte e calze di seta con buchi di pizzo e reti da vecchia cortigiana …
Lo specchio aureo e plumbeo vede allineati come cento soldatini, i tappi di vecchi rossetti scarlatti, rifugi ora di viscidi scarafaggi e ragni.
Lapidario e appannato, il grande specchio in frantumi, reduce dagli slanci bellicosi di una guerra di nervi, mostra il collage di una donna fantasma, che ha svenduto il corpo generosamente sinuoso di femmina per tentare di annullarlo nella fame più mordente ed assegnarsi un’altra anima.
Misto profumo di cipria e muffe, stantia polvere verde ed acari pungenti, che ora stringono il collo ingioiellato e acutizzano nella tosse selvaggia, la voce smorzata, di ormai troppe sigarette.
L’omino fuma anche lui, nella sua camicia dal colletto candido e la cravatta americana perfetta, fuma e sorride senza far rumore, senza gioia, con la mano che non concede carezze, che non ammette errori, con l’intransigenza del padrone, unto e odioso, anche quando appare sorridente, in quella smorfia da film invece, la linea di confine tra i denti è solo la sua svilente morfia di disprezzo.
A me insegnarono il silenzio e l’umiltà e io fui umile e silenziosa di fronte al male subito, fu scambiata per sottomissione, la mia reticenza.
Mi fu insegnato a tenere lo sguardo basso e quando risero di me, non li vidi neppure.
Mi fu inculcato che l’educazione è cieco rispetto, sapendo di non poter affrontare con questi la depravazione e la prevaricazione dei bulli.
Ma a te ho indicato di scegliere tra la ferocia della tigre e l’equilibrio dell’airone: vola via e vola alto, sia il tuo sguardo, altero, privo di ogni timidezza, nessuno potrà mai valere più di te.
Il servilismo, il comando e dal comando, dalla sopraffazione del più forte, ti protessi e ti proteggerò, anche ora da qui, dove questa vile giustizia, non offre difese, resta sorda alla disperazione , si propone contraria alla violenza, ma non sa apporre ancore a chi ne è vittima, anzi si accanisce grottesca sulla parte lesa, con leggi ottuse e cieche.
Non ebbi numeri, amici da chiamare, campanelli da suonare e porte aperte all’accoglienza.
Tutti furono sordi alle mie rughe di sofferenza, qualcuno pur soddisfatto della mia infelicità, mi disse in faccia che era il fio da scontare , la depravazione mi dava il resto e, forse, era ancora poco.
Non mi aspettavo tanto veleno, l’ho bevuto per poi renderlo.
Ma tu non c’entravi, tu dovevi uscirne pura. Fu solo colpa mia e per questo ti proteggerò, con l’assenza, depositerò la mia ennesima lettera sulle spalle di questo edificio sbarrato, dal quale non saprò uscire mai più.
Sconterò la pena dolce per aver difeso me stessa dal non essere stata amata mai veramente come persona, barattata come triste oggetto di diletto, ignorata da chi ha dato un prezzo ai miei tormenti, per sciacquare con i soldi una coscienza da pattume.
Qui tra queste mura il peso della colpa, diventa il fardello leggero, di chi sa di aver fatto la cosa giusta, per proteggere l’innocenza, da mani e mente perversa.
Qui si placò l’inquietudine, per un piccolo cuore in pericolo, con l’azione d’estrema difesa.
Il piccolo cuore libero, ora libero e lontano, al sicuro, e soprattutto ignaro, è il pensiero forte che mi sostiene.
Ignorami, sii libera, sii salva, protetta oltre queste mura alte c’è il mare, ne sento il profumo e ci sei … tu,
figlia mia Benedetta.
sempre Tua
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