Candida era il nome che mi sarebbe piaciuto avere, ma non saprei dire ora il perché. Era il nome di una bambina che veniva all’asilo nella mia stessa classe. Spesso si era sedute accanto, nei giochi didattici delle suore, come quello strano di bucherellare la sagoma di un frutto disegnato, per poi ricavarne la figura da colorare.
Ricordo, come si rammenta un sogno al mattino, che lei era molto abile, mentre io mi pungevo le dita, nonostante la spugna sotto al disegno. Candida mi aiutava nella disabilità delle cosiddette attività manuali e pratiche. Mi piaceva il suo nome, correlato al suo sorriso, candido appunto come un fiocco di neve, e mai l’avrei accostato alla malattia fastidiosa di bambini, che è anche contagiosa e porta il medesimo nome.
La sua mamma, curiosamente, si chiamava Bianca e aveva altri tre figli, di cui sembrava non si conoscesse i mariti, si al plurale poiché sembra ne avesse parecchi e vociferavano in paese che fosse una donnaccia. Ma Candida era mia amica e nessuno mi poteva parlar male di lei. Poi andò in qualche altro posto a vivere ed io piansi.
Vivevo in una casa piccola piccola, con un grande gatto, molto più alto di me, ai tempi, tanto che lui riusciva ad afferrare la maniglia della porta e io no, e accadeva che per poter entrare nell’altra stanza dovevo aspettare che a lui venisse in mente di farlo pure. Proprio i gatti non mi sono mai mancati come fratelli diversi, tanto che mi immedesimavo e fin da piccina ho pensato di aver come loro sette vite.
La prima non me la sono giocata bene, a tre mesi mi dissero che fui svezzata dal latte materno, per un’intolleranza. Forse per questo da adulta ho sempre tollerato molto ed affinato la mia pazienza nel tagliere, dove ho eliso lo snobismo di classe e di ogni altro genere.
Nella seconda vita ricordo d’essere stata un’ottima crocerossina. A cinque anni, e fino al mio quindicesimo compleanno, ho fatto di bisturi e garza i miei attrezzi preferiti, per amore o per forza, ma di certo più per il bene profondo e la compassione verso il malato e la malattia di cui ero vestale e di cui serbo il segreto professionale.
La terza vita l’ho trascorsa ad innamorarmi dell’amore, a tradire i libri con i fumetti e a mangiare gelati in inverno, anche d’avanti allo stereo acceso più d’un caminetto in uno chalet montano.
La quarta vita, come la quarta luna, mi sovviene magica di promesse e d’amore eternissimo, tipo certe pentole tanto reclamizzate alla tv e che ebbe il sapore della sabbia d’estate, il colore del miele nei capelli e del rosso vivo della passione di celluloide.
La quinta vita, ridimensionò il film e i personaggi, che diventarono persone ed io adulta, io donna, io mamma per una vita da trasformer in “tre V”, alias tre vite in una soltanto. Una faticaccia, ricompensata dalla salvifica identità materna, che padroneggiava le sofferenze di esser sposa e moglie, non sempre compresa, fors’anche compressa, da gelosie ed incomprensioni, a loro volta incomprensibili.
Alla sesta vita ha chiesto tempo, e autonomamente essa s’è presa una pausa e ha chiesto aiuto alla settima vita, quella virtuale, che come una stampella sostiene, mentre di fatto è sostenuta e coadiuvata, per tornare a capire le cose che da piccini erano chiare, perché i bambini son davvero saggi, solo che l’età si divora quella straordinaria sapienza e le menti regrediscono, fino a renderci copia di altre persone, fin anche di successo, che imitano altre e poi altre ancora, senza serietà e rispetto per la propria identità iniziale. che non basterebbero altrettante sette vite a correggere, a salvare dall’irreversibile stupidità collettiva.
Ora il mio desiderio ultimo è semplice, tornare a chiamarmi per nome, tornare ad essere come Candida nell’ottava possibile vita.
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