Un banale tema che invitava tutti i bambini a descrivere i propri genitori e parlare del loro rapporto in famiglia. Per lei, come per tutti quei figli piccoli che vivono un menage familiare problematico, questo svolgimento non poteva che rappresentare un tormentoso dilemma. Dover descrivere la vita reale, con tutto il dolore che ne conseguiva? Oppure eludere la realtà con un racconto inventato, dove il vissuto è quello dei sogni desiderati? Ester non desiderava raccontarsi, non in quel momento.
Svolse il suo tema tratteggiando un padre affettuoso e caro, col quale aveva in comune tratti somatici e carattere deciso, ma anche un tratto docile e giocoso, che la portava a condividere affinità interiori comprensibili solo per loro due.
Disegnò una famiglia serena, il suo sogno ricorrente, di mamma e papà sorridenti che la risvegliavano con i baci al mattino, con gli abbracci calorosi che l’accompagnavano per l’intero giorno e di cui non avrebbe mai potuto fare a meno.
Raccontò di cene gioiose davanti al camino acceso, quando si confidano al fuoco i successi e le “scaramelle” del quotidiano; scrisse di tutto l’amore che aveva sempre desiderato, tacque sull’infelicità patita e di cui aveva una chiara lettura negli sguardi sofferenti della sua mamma.
Non parlò degli smarrimenti che la spaventavano, degli occhi persi che non la riconoscevano, dei lunghi silenzi che la allontanavano, dei misteri di cui non aveva mai proferito parola o domanda, ma che gravitavano nella sua mente bambina.
Scrisse soltanto di affetti cari, aspersi nel suo sconfinato desiderio che diventassero reali, li trasferì sul foglio che accolse tutte le sue confidenze, che come piccole bugie mascherate da sogno, facevano del semplice tema un testo crittografato, comprensibile solo ad un animo sensibile e ricettivo quale era quello della maestra Laura, alla quale non sfuggivano certo le malinconie dei suoi piccoli allievi. Rilesse più volte quel tema, riflettendo su ogni parola e ogni frase, trovando nella personalità di Ester molte analogie con la bimba che lei stessa era stata, facendole ricordare la sua infanzia lontana.
Laura era una di quelle insegnanti che vivono il proprio mestiere come una missione e non come un mestiere, univa ad una innata professionalità il più assoluto rispetto per il prossimo in generale e per l’individuo bambino in modo più specifico.
Donava con discrezione e serietà la propria esperienza umana e scolastica, curando così ogni aspetto della crescita dei suoi allievi.
Di Ester si era accorta subito che era una bimba speciale, docile e sensibile, come si era dimostrata nel rapporto con Paoletta, dove il suo altruismo l’ aveva avvicinata alla disabilità, rafforzandone il carattere.
Una bambina matura, troppo per i suoi anni, nei cui occhi brillavano le ombre della tristezza, che nascondevano frammenti scheggiati di dolori mai emersi.
Il quadretto famigliare descritto nel tema era verosimile, dalla sintassi scorrevole e chiara e dalla grammatica corretta, per cui se Laura si fosse limitata al solo ruolo d’insegnante le sarebbe bastato mettere un buon voto, ma il suo sentirsi mamma, ancor prima di maestra, la costringeva ad un’attenta analisi di ogni parola che le rivelavano il dolore per un’infanzia colma di lacune affettive.
Il senso di responsabilità, di cui la maestra era portavoce, nei suoi insegnamenti, ne faceva una donna attentissima alle altrui difficoltà, le piccole amarezze che coglieva sui visetti dei piccoli allievi le analizzava con discrezione e con una paziente opera di comprensione e fiducia, faceva in modo di esserne la confidente. Era notte, quando rileggendo per l’ennesima volta il testo di Ester, Laura si addormentò sulla sedia dello scrittoio, come le accadeva spesso…In quel dormiveglia scomodo per la posizione innaturale, vide delinearsi sul foglio scritto del quaderno, il ritratto di una bambina bionda con gli occhi bassi per la timidezza, quasi sparuta davanti ad una madre troppo imponente, sempre pronta a rimproverare ed eccessivamente avara di parole di conforto o di assenso.
Una casa troppo grande per due donne sole, nella quale riecheggiavano i piagnistei snocciolati per ore, accanto ad un cagnetto nero, dagli occhi color matita, che ascoltava attento e preoccupato insieme il lamento della sua amica, per quell’istintivo senso di solidarietà in cui si caratterizza il genere animale. <Voi bambini piangete senza motivo!>, le rimproverava la madre. Quella frase da sempre luogo comune di molti adulti, era espressione della superficialità che evidenzia l’incapacità di vedere oltre il piagnisteo. Laura sapeva, come del resto ogni bambino sa, che le lamentose nenie, sono l’essenza d’esser piccini, nascondono la necessità di esser protetti, perché è forte la sensazione di essere fragili, in balia degli adulti, che non sempre comprendono e ai quali chiedono ripetutamente e insistentemente aiuto.
Laura era rimasta in un angolino del suo intimo più vulnerabile, la bambina di un tempo che piangeva per la morte di un piccolo bruco o di un filiforme ragnetto, che viveva i rimproveri materni come un’inspiegabile ostilità nei suoi confronti che pure era la sua unica figliola, perciò reagiva con singhiozzi a perdifiato che si spegnevano nel sonno.
Le giornate di ozio della sua prima infanzia le aveva trascorse saltando con la corda, nell’atrio di un antico palazzotto baronale, impregnato di odore di muffe, che esalavano dalle umide antiche mura scalcinate e dove la polvere, assieme ai muschi e all’edera rupestre delle balconate, ne evidenziavano la decadenza.
L’austerità del grande arco effigiato dall’orso, introduceva al grande cortile che in passato aveva ospitato carrozze trainate da cavalli piumati, trasportini per le “signorie ”del luogo. Nelle sale ormai vuote anche di arredi, un pianoforte sdentato, rievocava serate di concerti, balli, risa e pettegolezzi ormai svaniti per sempre, tra quelle mura di saloni affrescati con amorini sognanti e travi barocche rette da capitelli scolpiti che si stagliavano tra finestre ampie e balconi: occhi indiscreti di ospiti eleganti dagli opulenti sorrisi ipocriti ed unti, che apparivano e scomparivano dietro le pesanti tende di velluto o i leggeri sbuffi di seta e makramè.
Un susseguo di disgrazie e il grave lutto, per la perdita del padre, avevano riportato Laura e sua madre al piccolo paese d’origine. Tre anziane donne e un’adolescente, abitavano la villa materna, anch’essa ormai troppo grande e solitaria. Indossavano abiti vintage con orgoglio e dignità di nobil rango, riconducenti alla decadenza aleggiante tra la polvere del mobilio corroso da tarme impietose.
Le tre nobildonne sedevano quotidianamente dietro una porta-finestra di un balconcino prospiciente alla via, ricamando preziosi pizzi di biancheria principesca, che forse mai nessuno avrebbe osato usare.
Gli occhi cerulei di Aurora (la più giovane ottuagenaria delle sorelle) brillavano attentissimi, dietro gli occhialetti d’oro sul visino dai tratti gentili, diverso da quello delle sorelle, Emma e Vittoria, dallo sguardo appuntito e superbo, che erano rispettivamente zia e madre di Laura. Quest’ultima, sposatasi in tarda età e per “convenzione sociale” ad un uomo politico, più anziano di lei, era volata a Roma, aveva potuto continuare gli studi universitari e laurearsi in legge, era poi diventata un notaio molto apprezzato. Superati i quarant’anni, era arrivata la maternità e il conseguente abbandono della carriera, ispirato dal forte senso del dovere che contraddistingue i giuristi di ogni categoria. A pochi mesi dalla nascita di Laura, venne a mancarle il marito; da qui, la decisione di Vittoria di ritornare al paese, dove le sorelle le avrebbero dato sicuro conforto e l’aiuto necessario per allevare la figlia. Vittoria sarebbe rimasta sempre più notaio che mamma, per carattere intransigente ed esigente nell’impronta educativa.
Zia Emma, che ne aveva un timore reverenziale, non era poi così dissimile da lei; per fortuna di Laura c’era zia Aurora che era stata un’eccellente maestra di scuola, amorevole e comprensiva, l’unico punto di conforto per la nipote che l’adorava. Sarebbe stata per sempre l’angelo consolatore che la bambina avrebbe imitato nella vita seguendone l’esempio specie nella sua attività d’insegnante.
Pensando a ciò che avrebbe fatto zia Aurora, Laura prese la decisione di incontrare Lory al casolare nella settimana precedente le vacanze pasquali.
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