Mi sento profondamente infelice
eppure serena
presa, persa e contenuta in quella rassegnazione
che una sana autocritica rafforza.
Infelice come una mareggiata che ha disperso
i momenti migliori
e rilascia le notevoli preoccupazioni
del normale scorrere del tempo
con i malesseri saltuari
che diventano malattia
e poi fine
e confine
senza alcun conforto
e senza la quintessenza dell’essere che è il perdono.
Perdono me, per non aver osato
e non aver speso gli anni del potrei
lasciando decadere
qualsiasi possibile riscatto.
Le parole e i pensieri rivolti
al cielo
che li bacia e li contiene
e li comprende, perché dell’essere compresi
è fatta la mia serenità
che sa nascondersi in spalle larghe e mute
che sanno abbracciare
senza fare domande
o chiedere del passato
spalle che sorreggono segreti
come massi e conoscono l’arte di sapersi arrangiare.
E’ racchiusa in una canzone
l’infelicità e tu la canti serenamente
come un minuscolo passero sul trespolo
e mentre la riascolto
si fa sera
si fa notte e un giorno in meno
è un giorno perso
per sempre
e in quel sempre non mi ci trovo
né mi riconosco più.
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