I primi di giugno, profusi d’un caldo tiepido, separavano il lungo inverno dall’esagerata e puntigliosa caldana estiva. Frusciava su giornate più lente e pigre un’altalena di vento e tepore che, riposando la mente, risanava il corpo dalle ferite e i fischiettii spasmodici dell’asma.
Il pallore algido del viso riprendeva colore allorché le guance scarne si lasciavano baciare da raggi salvifici del sole. Un piccolo libro e la curiosità del viaggiatore l’accompagnavano alla ricerca nell’appuntamento annuale con un raro fiore selvatico.
Sorgeva al solito posto, tra erbe spinose e graminacee caparbie
la cui minuscola eleganza sarebbe rimasta ignorata
se l’occhio attento del pastore non gli avesse riservato l’attenzione
acuta e la più assoluta e misteriosa devozione del paradossale misticismo dell’agnostico.
Tutte le cose che non sapeva spiegare erano prodigi:
la mano che l’aveva accarezzato da piccino ed era andata via furtiva per non tornare mai più; la nascita dei piccoli agnelli, sacrificata al palato per due lire, escludendo che la coscienza avesse parte a tale sacrilegio.
Le botti piene del vino novello, trangugiate in fretta, per affondare nel riso stordito ed idiota un’allegria tardiva e forzosa, sottratta ai cori genuini dell’aia, quando ripulita dal letame, risollevava col canto e danze rurali, il lavoro dei campi e gli affanni delle poche certezze del raccolto.
La passeggiata tra roveti e fichi d’india ancora chiusi in bottoni era quasi suggellata dall’appuntamento annuale con quel fiore strano, all’angolo del sentiero tortuoso, dove carte e rifiuti di ogni tipo venivano accantonati dal turbinio dei venti o trasportati da sempre più frequenti piogge acide e torrenziali, quasi liberatorie per la natura stessa.
Un fiore si affacciava allo scorcio d’azzurro, come occhi materni, privi di volto, pupille enormi che parevano ammirare e perfino custodire un minuscolo becco che si abbevera ad un’altrettanto microscopica fonte.
La natura portentosa riproduceva in scala minima uno dei momenti più essenziali di sé, semplicemente manifestatosi a chi sapeva vedere oltre che guardare e apprezzare un piccolo bijou fatto di fragilità e perfezione caduche, speciale frammento della stessa vita e delle sue grazie.
La malattia lo tenne a letto per diverse primavere e quando le forze lo accompagnarono tornò al sentiero e fu triste.
Il ciclo perenne e mutevole della vita consacra la fine delle cose per quanto belle esse siano e barattoli di scarto e piogge tossiche avevano annientato nelle radici il colore sempre più tenue e i petali rinsecchiti fino alla definitiva scomparsa del raro fiorellino.
Nulla è risparmiato alla lunga agonia a cui sembra destinato il pianeta che gli ominidi allo stato primordiale avrebbero tenuto intatto senza arte e senza agi, con la forza del timore inconscio e profano e l’allegria immensa e grata del primate.
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