Marillina viveva da qualche tempo, un tempo che non sentiva proprio, distratta dalla mente iperbolica e digitale della televisione, che come cattiva maestra la conduceva sulla falsa riga di storie e situazioni subdole e romantiche, struggenti e passionali, quali antiche romanze venute fuori da libretti di teatro verdiani, che le rigavano le gote di sale e sorrisi.
Le note in effeemme le riempivano l’anima di inspiegabile felicità, che diventava euforia se lo speaker di turno dedicava una canzone menzionando quel nome, a lei caro. Non mancava giorno che non riascoltasse la canzone in cui era la protagonista di una storia importante, seduta su quella famosa seggiola per un saluto ultimo che non sarebbe mai finito, in una storia come partita a poker che lanciava parole da matti e carte intarsiate tra cuori e picche.
Erano così le sue storie, ed in fondo si chiamava Marillina non per caso, ma per l’espresso desiderio dei suoi di onorare il mito di Marilyn, stampata grande sul muro piccolo della sua camera minimale. Per molti anni non era riuscita a trovare neppure una similitudine tra sé e la diva, diversissime per colore della pelle, degli occhi e dei capelli, tanto che le sarebbe stato congeniale esser chiamata Bruna, come la responsabile della lavanderia all’angolo, la bella signora dai lunghi capelli neri e dagli occhi scuri come il carbone, che ogni mattina passando da casa sua per la colazione, lasciava davanti e dietro di sè un ottimo profumo di lavanda e sguardi di ammirazione.
La tentazione di recarsi al comune e cambiar nome era stato un pensiero ricorrente, per poter scegliere uno sobrio, meno vezzoso e che rifuggisse l’idea della vamp hollywoodiana, che splendida creatura era perennemente ammiccante. Dolce frivola bambina di gommapiuma, alla faccia del suo non compleanno secolare, a cui era sfuggita riaccendendosi con tetro fascino, candelina dopo candelina, in una singolare festa, imbottita di confetti amari ed alcool, e di chissà quale altro balocco che le verniciasse di blu la felicità mancata e di rosso tutti i baci non dati, sparsi come neve a Natale su ogni busta e su ogni specchio dei vecchi marinai e militari al fronte.
Quando di troppi anni e di troppi amori furono vuote le stanze del cuore, Marillina abbracciò Marilyn. Come in un cortometraggio le avvicinò la solitudine dei giorni sfumati col tramonto, perso nella malinconia struggente che conserva l’abitudine ai profumi e al tocco delle mani dell’unico vero amore perduto per sempre.
Tristezza suggella amicizie, in quel comprendere lo stato d’animo e viverlo al contempo, anche se nello spazio temporale diviso da anni che si azzerano, se ancora qualcuno piange quando Mimì muore, davanti al suo amato che stringe la mano gelida. Così il nero dell’incomprensione è vinto dalla luce insondabile dell’Amore, unica soluzione per colmare lo spazio abnorme d’ignoranza riguardo alla morte, in cui è prigioniero l’umano limitatissimo scibile, che continua a chiedersi e a voler vedere oltre la cortina di fumo denso.
Marillina amò ed odiò Marilyn, come aveva amato ed odiato tutte le donne che non comprendeva: amiche che l’avevano tradita anche con uno sguardo di perfida invidia, compagne di scuola che scambiavano il suo farsi voler bene per paraculismo di comodo, colleghe di lavoro che interpretavano il suo senso del dovere come ambizione estrema e tutte quelle che giudicavano senza conoscer nulla di lei.
Forse per questo il suo migliore amico era stato un uomo, forse per questo non avrebbe mai compreso il femminismo che esaltasse la persona in quanto donna, perché Marillina stimava le persone per il carattere, la sensibilità , l’altruismo, per la creatività e la duttilità di ogni persona aperta di vedute e della bellezza femminile, imparò dal suo alter ego ad apprezzarne la fragilità che può perfino distruggere una donna, condannandola a vivere il delirio d’un dramma passionale, dal quale solo chi è più puro esce vincente, per divenire dea, intoccabile icona che riesce a sconfiggere e frodare il tempo.
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