Lory era la delicata essenza dei suoi adorati fiori.
Riversava quell’amore stranito nello splendido giardino, dove curava con garbo e dedizione le sue meravigliose piante di rosa. Un cespuglio rigoglioso era posto in cima ad una collinetta di sassi rupestri, ammonticchiata su di un lato della casa: piccole foglie dentellate e verdissime, ombreggiavano minute rosette bianche e profumate, che a maggio trasformavano il cespuglio in un candido bouquet da sposa.
In una grande giara di terracotta, posta su una veranda soleggiata, v’era la rosa tea, superba tra le mammolette, che come damine multicolori la circondavano, evidenziandone la bellezza risplendente. Nei pressi del vecchio pozzo, le erano “rivali” le rosse vellutate, accompagnate dagli eleganti ombrellini, che le rendevano “principesse,” sminuendo la bellezza delle “rosa antico”, messe lì accanto apparivano modeste, anche se la doppia fioritura annuale rendeva loro giustizia.
In questo regno di petali e profumi, Lory esternava la propria creatività emotiva, dando beneficio alle piante, e ne sentiva la gratitudine, gli odori e i colori meravigliosi che esse emanavano, le restituivano un benessere psico-fisico immenso. Un pesante cancello in ferro battuto dava o impediva l’accesso al viale, abitato da un club allargato di gattoni e gattini dalle svariate razze, dalla combinazione di colori più bizzarri e dal pelo lungo o completamente raso, occhi smeraldo o nocciola, code lunghe e arrotolate o mozze, un po’ spelacchiate, che con i loro musetti umidi e le orecchie tese, erano sempre in cerca di cibo, prontissimi ad accerchiare Lory, quando col pentolone portava loro un boccone e una carezza, mettendo tregua ai lamentosi miagolii.
Quando il sole inondava la veranda o i muriccioli di pietra, i pigri felini si accovacciavano, spiando sottecchi tra edera e muschio, pronti a predare qualche lucertolina dalla pancia bianca e gli occhietti giurassici.
La calura, che pian piano diventava tepore, preannunciava la fine dell’estate, settembre capriccioso e piangente alternava al sole secchiate di pioggia e tempeste di scirocco.
Il vento africano scompigliava i vigneti, pregni di acini maturi, e percuoteva anche gli arbusti più forti, per poi placarsi, regalando al creato notti limpide e giornate solari. Nei mattini di dopo-pioggia che preannunciavano il sereno, Ester dormiva accoccolata ad un orsetto, nella sua culla di legno d’abete, accanto al grande letto di ferro decorato con un grande cameo di fiori dipinti, dove anche Lory sembrava addormentata. Lungo i vetri delle porte-finestra scorrevano veloci rigagnoli che ricadendo sul davanzale di marmo, con ritmo cadenzato, risuonavano di antichi tam-tam tribali.
Rompeva quel ritmo il miagolio insistente di un micione: era Tigrotto, che graffiando il vetro, richiamava l’attenzione della sua padroncina, la bella bambina delicata e gentile, che gli donava latte e carezze. Quando la finestra si apriva ed Ester richiamava ,Tigrotto ,”il micione”, la salutava sfregando il suo pelo folto e striato sulle ciabatte turchesi della piccola amica, lei lo raccoglieva, asciugandone il pelo umido, con un abbraccio amorevole come quello rivolto ad una bambola cara.
Quasi sempre, il temporale di fine estate si risolveva in un radioso sole che avanzava sulle nuvole, riscaldando i prati attorno alla casa colonica isolata, dove la pioggia alternava il sereno, e un dolore latente si alternava alle piccole gioie della vita.
Nella sala soggiorno, un pendolo fermo da qualche anno riposava, solcato da rade ragnatele, appoggiato ad una parete gialla un po’ scalcinata; di fronte ad esso, quasi al centro della sala, era posta una poltrona rosa, dalle frange strappate e dal tessuto mappato dagli artigli felini. La poltrona guardava il pendolo fisso, come per sottolinearne la più completa inutilità e indifferenza verso il tempo che scorre, come se ciò in quel luogo non contasse assolutamente nulla. Era l’antitesi dell’umanità, che attribuisce al tempo e alle sue leggi un’importanza estrema, che arriva nel senso opposto a logorare se stessa.
Lory, rifugiata nella sua poltrona, guardava l’orologio inerme ed era come se avesse anestetizzato il tempo, per molte ore, quasi inconsapevolmente era rannicchiata lì, sembrava riposasse, ma negli occhi socchiusi scorrevano inquietudini. Lei non era mai come appariva. I tratti dolci del viso, andavano ad asservirsi alle piccole pieghe della tristezza, che un sorriso sempre più avaro non riusciva più a contenere.
Il carattere era diventato volubile, imprevedibile come il tempo d’autunno.
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