Un’ampia sala con le porte aperte
finestre dalle tapparelle rotte
che ritraendosi stridono
in un rintocco di lamiera.
I mobili senza più ante
bocche pullulanti di tarme invisibili
mostrano interni in disordine
scie di vesti profumate da gocce di lavanda
e paltò sdruciti, fuori moda.
Lo scrittoio di faggio riversa come in un rigurgito
un blocco di fogli che annotano la vita
codificata in anni e stagioni di foto
figli malanni e ricette.
Quasi a non scordarne le assonanze fortuite
e le dissonanze incongruenti al presente.
Al divenire che non ha più orizzonti
ma procede
monotono battito del cuore
malandato strumento
discordante
incerto
infido
e sempre più lento
come il ballo della signora russa
grassa ed ansimante
che abbraccia il baby fidanzato e ride
perché forse sa che la risata allevia i malanni
e la vodka bollente li affoga.
La signora russa, ridanciana
con la sua borsetta di coccodrillo
ha pena dello sguardo triste e non capisce
che io ho pena di lei
ed ancor più dell’alligatore (umano)
che la sostiene.
Mi dice qualcosa
senza guardarmi e stavolta
non capisco io
Poi mi offre del fumo
<Sorry> rispondo, e vado via.
I miei pensieri invece
son tutti lì, tantissimi
sull’appendiabito riverso
come corvi ammaestrati.
Non occupano spazi
non arrecano danni o rumore
ma non mi seguono affatto.
Capisco che resteranno lì
senza me
in quella che prima era casa.
La mia.