Questo racconto è il seguito de L’ascensore – Alessandro e il rimorso
Avevo lasciato Alessandro con la promessa di riflettere sul suo sentimento di rimorso e di ritornare con lui su quell’argomento. Sapevo però quello che anche Alessandro sapeva, e cioè che si trattava di un argomento scabroso, sia per il Sistema che per la maggior parte delle persone del nostro tempo. Tuttavia, nonostante il fatto di essere nato e cresciuto in questa epoca di grande benessere condiviso, mi ero sempre sentito orgoglioso di pensare oltre gli schemi. Ed i miei studi universitari mi avevano portato a stabilire delle regole di vita e comportamentali che mi permettevano e, in un certo senso, mi obbligavano a guardare tutto e, soprattutto il pensiero ed i sentimenti umani, con estrema attenzione, senza dare niente per scontato e, anzi, con grande interesse e spirito esplorativo.
Il giorno dopo avevo appuntamento con Roberto, al piano 66. Mentre percorrevo in ascensore qualche decina di piani, dopo aver lasciato il mio alloggio provvisorio, pensavo ad Elena e mi chiedevo se anche lei percepisse la differenza tra il vecchio mondo della prima metà del secolo ed il nuovo mondo che seguì la Grande Singolarità. Come era successo al marito Alessandro, anche lei era stata rapita da questa idea di vivere molto più a lungo dei suoi genitori e finanche ringiovanire a piacimento. Ma nel processo di ricostruzione della sua forma giovanile si era, naturalmente, fermata ad un’età di circa 35 anni, non troppo giovane da sembrare la sorella o la figlia di sua figlia e non troppo matura da sembrare in una fase calante secondo gli schemi del vecchio mondo ed in qualche modo anche di suo marito. Insomma, ero curioso di scoprire se Elena fosse assuefatta al nuovo mondo oppure ne fosse critica come lo era il marito.
Perso in questi pensieri, mi ritrovai al cospetto di Roberto, nel suo studio, al di là di un enorme tavolo in mogano, al lato di una grande parete vetrata che apriva su un panorama mozzafiato. Il panorama era quello della città-provincia di Sorridente, in onore del vecchio villaggio di Sorrento, di cui pochi, naturalmente, ricordavano l’etimologia ancestrale che riportava alle sirene di Ulisse. Roberto esercitava la sua professione di medico della torre Ovest, dove vivevano circa 10.000 persone. Anche Roberto era nato e cresciuto prima della Grande Singolarità e quindi ero molto interessato ad analizzare il suo pensiero.
“Come le dicevo” proseguì Roberto, “ormai di questi tempi nessuno ha più bisogno di me. I nanoiatri hanno rimpiazzato le vecchie diagnosi, terapie e medicine. Come lei saprà, i nanoiatri sono i robot nanoscopici di nuova generazione che non solo hanno permesso di curare sostanzialmente tutte le malattie dell’era pre-singolarità, ma anche di ridare giovinezza a chi ne aveva desiderio e diritto.”
“Che significa ‘nanoscopico’?” chiesi, mostrando un sincero interesse per quella che conoscevo a spanne come la nuova medicina molecolare.
“Significa che i nanoiatri sono grandi poco più di una molecola complessa e cioè nell’ordine del nanometro, cioè un milionesimo di millimetro, e possono essere programmati per prevenire, curare e ridare vigore a qualsiasi tipo di cellula umana, animale o vegetale. Ma non voglio annoiarla con dettagli tecnici superflui.”
“No, no, al contrario, l’ascolto volentieri. Le dirò, sono particolarmente interessato al suo punto di vista, dato che lei ha vissuto pienamente l’era pre-singolarità e, come lei avrà letto, noi analisti abbiamo sì, il compito di controllare che nella Nazione Globale tutto proceda in modo ottimale, ma anche la libertà di studiare a fondo gli effetti dei cambiamenti prodotti dalla Grande Singolarità. Quindi, la prego, mi dica tutto ciò che serva a comprendere la sua attività e le modalità con cui la svolge. E’ un piacere ascoltarla, mi creda.”
“Bene, allora le dirò come è cambiato il mio lavoro e, devo essere sincero, con mia grande soddisfazione.” disse Roberto, offrendomi dei cioccolatini deliziosi, mentre alle sue spalle, al di là della vetrata, il sole si alzava velocemente, rendendo sempre più piccole le ombre delle torri giganti di Sorridente.
“Prima della Grande Singolarità, il mio era un mestiere difficile. La gente veniva da me come fossi uno stregone. Chi entrava nel mio studio era mediamente ignorante come una capra, non era quasi mai in grado di spiegare chiaramente i sintomi del suo malessere e soprattutto veniva da me quasi sempre quando la malattia era in fase avanzata.
Io ho sempre avuto interesse e passione nello spiegare le cose ai miei pazienti ma, le assicuro, molto spesso era del tutto inutile, perché da un lato non mi capivano e dall’altro non avevano tempo e voglia sufficienti per stare ad ascoltare. Lo stress dei miei pazienti nella prima metà del secolo era diventato una malattia in sé, almeno dal mio punto di vista. Spesso mi sembrava di essere più uno psichiatra che uno specialista di medicina interna.
Insomma, prima della Grande Singolarità, noi medici eravamo cresciuti di numero, ci era stato insegnato che l’empatia verso i pazienti era una cosa molto importante, negli studi universitari era stato introdotto anche un corso obbligatorio di psicologia. Ma, stranamente, i pazienti non erano in grado di beneficiare di questa nostra disponibilità, perché, come ho già detto, non avevano né tempo né voglia di ascoltarci. Quindi, come spesso succedeva in quell’epoca, gli interessi di due persone che s’incontravano, volenti o per necessità, raramente coincidevano e quasi sempre contrastavano. Devo dire, caro amico, che in questa nuova epoca le cose vanno molto meglio dal punto di vista della medicina, un po’ perché come ho detto i nanoiatri fanno sostanzialmente tutto il lavoro fisiologico e neurologico e un po’ perché la gente non è più stressata e, quindi, se viene da me, ci viene perché lo vuole, e quasi sempre per fare una chiacchierata.
Ecco, questo è quello che mi è sempre piaciuto del mio mestiere, incontrare gente, ascoltarla, spiegare le cose, analizzare e scoprire assieme problemi e soluzioni. Ed oggi questo è veramente possibile. Anche se, le dirò, ora lo faccio con un numero di persone estremamente ridotto. Sì, sono pochissime le persone che mi frequentano, rispetto al totale dei miei assistiti, forse 1 su 100 viene da me regolarmente una volta ogni due mesi. E ci viene appunto per parlare, sostanzialmente come segno di amicizia, e la quasi totalità dei miei pazienti assidui ha vissuto, come me, anche l’epoca precedente la Grande Singolarità. Posso tranquillamente dire che oggi sono veramente in grado, se pur solo con alcune decine di persone, di mettere in pratica la mia grande passione medica, esercitandola con quell’empatia che avrebbe dovuto caratterizzarla da sempre. E questo mi soddisfa, molto.”
Lo ascoltavo, con grande attenzione, e mentre parlava sorridevo, dentro di me mi rallegravo, provavo io stesso una grande empatia per quella persona che aveva raggiunto il suo nirvana in terra. E l’aveva raggiunto un po’ grazie alle nuove scienze della nanomedicina, ma anche e soprattutto grazie alla passione ippocratica che si portava dentro da sempre. Quella passione che è l’essenza stessa della vita, un sincero sguardo negli occhi e nei pensieri delle altre persone, con l’obiettivo di condividere la propria conoscenza per il bene e la soddisfazione non solo del corpo, ma anche e soprattutto della mente.
Segue
by
[…] Il racconto prosegue con L’ascensore – Roberto e l’empatia […]